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      Ma per ritornare al vensette e alla sua malattia, con la temperanza de’ cibi (i prescelti, a lui, polenta e patate), temperante in ogni altro fuorchè nello studio, si condusse ventotto anni ancora, non senza il quasi quotidiano travaglio di digestioni gravi e dolori al fegato, significati non con parole, ma con cenni che precorrevano la sua volontà. Lotta tanto più dura quanto più robusta la tempra che resisteva alla lenta dissoluzione, e doveva rendergli palpitante di terribile vitalità la stessa agonia. Otto dì innanzi la morte, che i medici l’avevano già da più di tre settimane spedito, io lo visitai che i suoi già ne vedevano d’ora in ora la fine; e agli atti e al viso e alla voce presentivo che durerebbe a penare tuttavia. E la mente, scegliendo quasi tra gli organi del corpo i più docili a sè, fino all’ultimo se ne serviva a’ suoi nobili usi, e combatteva colla morte alla qual pure era pronto. Della stessa sua malattia ragionava fisiologicamente da filosofo, e quasi celiando, ma con profondo senso, diceva che nel dolore del corpo egli sentiva due e fin tre uomini in sè; fra le altre cose intendendo forse che i varî, come li chiaman, sistemi i quali anco in sanità hanno attività differente, e, se ci badassimo, ci darebbero forse sentimento distinto di sè ciascheduno, in malattia si dispaiano, e mentre che l’uno già si dissolve, l’altro è tuttavia pien di vita. Intendeva fors’anco che un alto vero adombravasi nell’antica distinzione della vita vegetativa, sensitiva, razionale; e che sebbene nell’uomo gli antichi le dicessero raccolte in una, in certi stati le si discernono come nel raggio i colori.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147