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      E i suoi dolori, fosser anco più acuti, e’ gli avrebbe vinti e sopiti con le gioie che provava indicibili dello scrivere, gioie sempre crescenti con la comprensione della sua mente e con l’amore alla sempreppiù degnamente contemplata verità. Per questo anzi poteva, se men rassegnato, essergli amara la morte, perchè l’umiltà non gli poteva nascondere la novità e l’importanza delle cose che Dio gli ispirava; era umiltà non di quella che bene egli chiama falsificata: sapeva che l’ingegno non è dell’uomo ma del cielo e della nazione e dell’aria e degli educatori, e che l’uomo da sè non saprebbe che sciuparlo e abusarne: sapeva che quel ch’è da meno, vede ciò che non vide quegli che sa di più; e che un fanciullo può benissimo notare l’errore d’un filosofo; ma vedeva insieme che i suoi concetti eran utili, sentiva il bisogno di compiere almeno l’Ontologia, e chiedeva otto giorni di tempo, e non li ebbe. E pure si rassegnò, forse pensando che altri avrebbe poi svolte le sue idee più liberamente, e però con più merito ed efficacia, accomodandole all’intelligenza de’ più e al bisogno de’ tempi. Non tutti i grandi fanno scuola, parecchi de’ più grandi non subito; nè egli sapeva o voleva o poteva farsi di molti seguaci, tropp’alto insieme e troppo umile. Ma certamente sentiva che, volendo Dio la sua morte, il meglio era morire; e diceva: s’io vivessi di più, non farei che male; conoscendo che il men bene, o il bene fatto troppo al medesimo modo e da un solo, può esser male anche quello.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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