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      Ornato di quella, com’egli la dice, santa amabilità, il Rosmini moriva. A un amico, chiamandolo de’ suoi più cari lasciava per testamento d’amore queste parole, che dal Vangelo passarono per generazioni e per secoli nelle coscienze di tanta semplice e povera gente a confortarle e levarle in sublime: salvare l’anima. Egli gentiluomo e scienziato ricco di tante riposte idee ed eleganze, poteva ben ritrovare e voci e figure da far accademica e teatrica la sua morte; ma il cuor suo non gli dettò altro che queste parole di Cristo e del popolo: salvare l’anima. Eppure pochi dì innanzi vagheggiava siccome tema poetico la sua propria morte e diceva: ci sarebbe un bell’argomento da magnificare la bontà di Dio, e dimostrare com’ella volle fare all’uomo men penoso il morire, confortandolo di tanti aiuti che procedono dalla natura, dall’arte, dalla Grazia; amici, medici, infermieri, varietà di medicine, cibi e bevande da tutti i climi; parole di conforto, ragioni di speranza; esempi di morti generose; i soccorsi ineffabili della religione. E soggiungeva che il soggetto dovrebb’essere trattato da pennello maestro, che la materia non manca, che la forma dovrebbe tenere di quella d’Orazio tra gli antichi, del Mascheroni tra’ moderni; valenti di parsimonia efficace. Checchè sia di quest’ultima opinione, vedete sempre fino all’estremo conciliata alla bontà la bellezza, la poesia alla scienza, le pure consolazioni al patire puro. Direste che siccom’egli senza sforzo pensava alte cose, così negli stessi tormenti del morbo dovesse far prova di quella agevolezza ch’è il segno della potenza; e che siccome quel Pagano disse la vita una meditazione della morte, egli si fosse abituato a morire.


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Antonio Rosmini
di Niccolò Tommaseo
pagine 147

   





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