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      Con questa specie di riduzione all’assurdo di tutte le successive definizioni che l’interlocutore era man mano costretto a proporre pel termine in parola, Socrate spingeva questi a confessare in fine di non sapere precisamente quali caratteri doveva possedere un oggetto o una persona perché il termine in questione fosse ad essa applicabile, il che equivaleva in altre parole a confessare che le frasi colle quali egli l’applicava a casi particolari, per quanto comunemente ripetute e da tutti accettate per vere e incontrovertibili, erano in fondo prive di qualunque senso determinato o determinabile, e, non essendo atte a dare alcuna reale informazione sulle cose o sulle persone alle quali si riferivano, non potevano essere considerate né come vere né come false, ma solo come delle vuote formole verbali indicanti tutt’al più il fatto che l’applicazione d’uno stesso nome a cose non aventi tra loro alcun carattere comune aveva la sanzione dell’uso volgare.
      A questa, che costituiva, per così dire, la parte distruttiva del metodo socratico, e nella quale l’interlocutore era forzato a riconoscere la propria ignoranza, o almeno a rinunciare alla troppo alta opinione che aveva della propria sapienza, teneva dietro la parte costruttiva, nella quale Socrate si associava a lui onde giungere insieme a determinare, nel miglior modo possibile, le delimitazioni a cui era necessario assoggettare il campo d’applicazione del nome onde riescisse possibile adoperarlo con un significato unico e determinato, corrispondente cioè effettivamente a dei caratteri comuni a tutti gli oggetti a cui esso si applicasse, e solo ad essi.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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