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      Non occorre dir altro per mostrare la superficialità e anzi l’inanità di quelle frasi, cui abbiamo già alluso, nelle quali i processi di spiegazione scientifica vengono rappresentati come mettenti capo inevitabilmente all’ammissione di leggi o fatti primordiali, alla lor volta più misteriosi e inesplicabili di quelli alla cui spiegazione sono applicati.
      Se con tali frasi si volesse significare semplicemente che, risalendo nella serie di deduzioni colle quali noi colleghiamo tra loro le nostre cognizioni, noi dobbiamo finire (se non vogliamo cadere in ciò che i logici chiamano «circolo vizioso») per trovarci di fronte a principi o ipotesi che ammettiamo senza poterle dedurre da altre, meno ancora tali frasi sarebbero da considerarsi come esprimenti una deficienza o una limitazione dell’intelletto umano, in quanto che ciò che con esse si rimprovererebbe a questo di non saper fare (cioè il dedurre qualche «cosa» senza partire da qualche altra «cosa»), lungi dal poter essere riguardato come un ideale, raggiungibile o no, non è neppure un’esigenza alla quale si possa attribuire un senso qualunque.
      Si riattacca forse a questo medesimo erroneo concetto dell’ufficio della deduzione nella ricerca scientifica l’opinione, che si ode spesso esprimere sotto forme diverse anche da scienziati contemporanei,(56) secondo la quale le discussioni sulle prove, o la legittimità dei principi e delle ipotesi più generali di ciascuna scienza particolare, e la decisione finale delle relative controversie, esorbiterebbe dalla competenza degli scienziati specialisti per cadere sotto quella dei cultori di ciò che si chiama «la filosofia», alla quale verrebbe così a toccare il pericoloso incarico di fungere da Suprema Corte di Cassazione nel campo intellettuale.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





Suprema Corte Cassazione