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      Che il non saper dire che cos’ è la tale o la tal altra cosa, equivalga a una confessione d’ignoranza, è un’opinione che si riconnette probabilmente all’abitudine, che contragghiamo da bambini, a concepire ogni nuova informazione come una risposta a domande del tipo: «Che cosa è ciò?», domande che al bambino vengono spesso suggerite dal fatto che egli si trova frequentemente nella posizione di chi si deve assicurare se un dato oggetto, che a lui si presenta come nuovo o strano, è già stato osservato e notato, e per così dire messo a protocollo, da quelle persone alle quali egli è solito ricorrere per procurarsi le indicazioni di cui sente bisogno o desiderio. Per lui, il sapere come una cosa si chiama è avere in mano una chiave per acquistare tutte le cognizioni che a lui possono occorrere in riguardo ad essa. In tal guisa non solo nasce in lui l’idea che tale conoscenza equivalga a conoscere ciò che più importa sapere sulla cosa in questione, ma egli è condotto quasi a immaginarsi che tutte le cose abbiano in certo modo un loro nome «naturale», alla stessa guisa come i corpi hanno un sapore, un colore, un peso loro proprio, indipendentemente da ogni convenzione o arbitrio dell’uomo.
     
      IX
     
      Strettamente connessa pure alle precedenti, e non meno di essa suscettibile di dare origine a dei problemi illusori o a delle difficoltà immaginarie, è la tendenza a credere che, per ogni nome di cui ci serviamo, sia possibile assegnare una cosa di cui esso sia il nome, come se non vi potessero o dovessero essere dei nomi che esprimono solamente delle «relazioni» tra più oggetti, o, in altre parole, delle proprietà di tali oggetti che si riferiscono al loro eventuale modo di comportarsi gli uni rispetto agli altri in determinate circostanze.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483