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      La denominazione di «calor latente», che servì per molto tempo a designare tale quantità di calore scomparso e capace di ricomparire, ci rimane come testimonianza dell’ordine di idee che guidò i primi indagatori dei fatti ai quali essa si riferisce, e ci fa riguardare come perfettamente naturale e anzi, a priori, affatto legittima l’ipotesi colla quale i fisici credettero a tutta prima di potersi dare ragione di essi, l’ipotesi cioè che i cambiamenti di stato fisico dessero luogo a variazioni nella capacità termica dei corpi che li subiscono, dimodoché le variazioni di temperatura corrispondenti a tali cambiamenti di stato fossero analoghe alle variazioni di livello d’un liquido in un tubo di cui venga a variare la sezione quando la pressione del liquido sulle pareti raggiunga un dato grado.
      È noto di quanto aiuto e in pari tempo di quale impedimento riuscì a Carnot questa medesima analogia tra la trasmissione di calore da un corpo a un altro di temperatura inferiore e il fluire d’un liquido da un recipiente in un altro in cui si trova a livello più basso. Mentre infatti questa analogia gli permise di rappresentarsi il lavoro, a cui tale trasmissione di calore dà luogo, come determinato soltanto dalla quantità di calore trasmessa e dalla differenza delle due temperature, precisamente come il lavoro d’un mulino dipende dalla quantità d’acqua e dal dislivello disponibile, questa stessa idea gli impedì per lungo tempo di accorgersi che a ogni produzione di lavoro in tal modo ottenuta corrispondeva, non solo una trasmissione di calore, ma anche una scomparsa di parte di esso, che si rende in certo modo latente appunto come nei casi considerati da Black.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





Carnot Black