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      Una teoria, attualmente assai in voga, e ritenuta da molti come la sola veramente «positiva», è quella che erige, a unico criterio giustificativo delle norme vigenti in una data società, le esigenze della sua conservazione e di ciò che si chiama la protezione e la «difesa sociale». È di questa teoria soprattutto che l’autore si propone di rilevare i lati deboli, sottoponendola ad una acuta analisi critica.
      Anzitutto l’assegnare, come fa tale teoria, a scopo supremo della vita sociale la conservazione della vita sociale medesima, presuppone anzitutto un’affermazione eminentemente discutibile, l’affermazione cioè che qualunque specie di esistenza sia preferibile al non esistere. Se si ammette ora che tale affermazione non è sempre vera neppure per gli individui, se si ammette come per questi possano esservi dei casi in cui è desiderabile, o giusto, o anche doveroso mettere in pericolo la propria esistenza, o anche sacrificarla, per il raggiungimento di qualche scopo superiore, non si vede perché mai anche una società non potrebbe eventualmente trovarsi nello stesso caso.
      Forse che per una società il continuare a perpetuarsi en pure perte, o l’acquistare la propria persistenza a prezzo di qualcuna delle numerose condizioni che sono necessarie per renderla desiderabile (...propter vitam vivendi perdere causas) non potrebbe essere altrettanto dannoso, o irragionevole, o vergognoso, quanto lo è per un individuo? Ma, anche rinunciando a dare all’obbiezione una forma tanto estrema come questa, non è lecito domandarsi, con l’autore, se veramente tutte le specie e forme di società posseggano in ugual grado le qualità che occorrono perché i loro componenti si debbano sentire «moralmente» obbligati a contribuire a mantenerle o a impedirne la dissoluzione?


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483