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      Parimenti se a un alunno che m’abbia definito il triangolo come una parte di piano limitata da tre linee rette, dico di disegnare un triangolo, posso aspettarmi, con poca probabilità d’ingannarmi, che egli mi disegnerà un triangolo equilatero, e se, in questo caso, gli dico di disegnarmi un altro triangolo, posso esser certo che egli crederà di soddisfare completamente il mio desiderio disegnando un altro triangolo... equilatero, precisamente come avviene nella nota storiella del bambino che, dopo aver citato il rinoceronte come un esempio di pachiderma, richiesto di additare un altro esempio risponde: «Un altro rinoceronte».
      Ed è ben naturale che così avvenga. Perché una definizione riesca a fermare, come deve, l’attenzione di chi l’intende sui caratteri posseduti in comune dagli oggetti chiamati col nome che si tratta di definire, occorre che questi siano presenti alla sua mente in un numero e in una varietà sufficiente, perché essa possa distinguere i detti caratteri dagli altri ai quali essi si trovano frammisti in quelli, tra gli oggetti della classe in questione, che gli sono eventualmente più famigliari, o che gli vengono più facilmente suggeriti dalle associazioni verbali antecedentemente stabilite.
      A evitare questo inconveniente non è certamente indispensabile che chi intende la definizione abbia avuto effettiva esperienza di tutte le varie specie di casi che essa contempla. È anzi la definizione stessa che d’ordinario provoca la mente a completare coll’immaginazione la propria esperienza, ad elaborare idealmente i dati di questa in modo da introdurre in essi il più grande numero di divergenze individuali compatibili colle condizioni enunciate.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483