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      Recentemente essa ha trovato un’espressione particolarmente energica nell’opera di Otto Effertz: Arbeit und Boden (Berlino, 1887), il cui capitolo d’introduzione è dedicato appunto a far rilevare come nessuna conclusione, affermante che qualche cosa è desiderabile o giusta, può essere ottenuta come conseguenza di un sillogismo, senza che l’una o l’altra delle premesse di questo consista in una affermazione in cui qualche altra cosa è affermata essere giusta o desiderabile: «ogni giudizio pratico concreto deriva quindi da una doppia sorgente... e si presenta in certo modo come una risultante di ambedue. Da giudizi semplicemente teorici non si può dedurre nessuna conclusione pratica» (p. 16).
      Quelli che qui l’Effertz chiama «giudizi teoretici» (theoretische Sätze), in opposizione alle proposizioni in cui è affermata la desiderabilità o giustizia di qualche atto o fatto, sono indicati dal Moore col nome di «giudizi causali» o «verità causali», in quanto ciò che con essi si afferma è appunto soltanto la dipendenza di dati fatti da altri, oppure la necessità o inutilità della presenza di dati fatti per l’esistenza o la produzione di altri fatti.
      Che le scienze, in quanto si distinguono dalla semplice memoria o registrazione storica di fatti già avvenuti, non si compongano d’altro che di «giudizi causali» nel senso sopraddetto, di proposizioni cioè nelle quali date circostanze o date operazioni sono dichiarate essere condizioni necessarie o sufficienti per l’ottenimento di dati risultati, è un fatto nel cui riconoscimento si trovano singolarmente d’accordo i più grandi filosofi dell’antichità con quelli tra i pensatori più recenti che si sono spinti più innanzi nell’analisi delle operazioni intellettuali e dei metodi scientifici.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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