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      Ora se, in questa parte dell’etica, come dovunque si tratti non di ciò che si desidera come fine, ma di ciò che si desidera solo come mezzo o in vista di qualche cosa d’altro, il domandare e ricercare delle prove di fatto di quanto si afferma non è meno ragionevole di quanto lo sia in qualunque altro campo di ricerca scientifica, ben diverso è il caso per le questioni riferentisi invece alla valutazione dei fini, alla determinazione dei criteri ultimi del bene e del male o di ciò che è desiderabile in se stesso, indipendentemente cioè da qualsiasi ulteriore sua conseguenza.
      In questo campo, osserva il Moore, non solo il domandare delle prove ma anche l’esigere una definizione di quello che si vorrebbe provato equivale a scambiare la questione di cui si tratta con altre affatto diverse e dalla cui soluzione essa non dipende affatto: «If I am asked: What is good? my answer is that good is good, and that is the end of the matter. If I am asked: How is good to be defined? my answer is that it cannot be defined, and that is all I have to say about it » (p. 6).
      Risposte analoghe a queste sono del resto costretti a dare anche i cultori delle scienze fisiche quando la parola, di cui si domandi il significato, sia il nome di alcuna tra quelle sensazioni o esperienze elementari di cui non si può acquistare alcuna cognizione se non col provarle o col ricordarsi di averle provate. Come rispondere, per esempio, a un cieco che domandi che cosa è la luce?
      Il procedimento seguito assai spesso nelle scienze fisiche e che consiste nel cambiare senz’altro il senso delle parole di questo genere, costruendone (come si è fatto, per esempio, del calore coll’adoperare il termometro come mezzo di determinarlo) una definizione avente rapporto soltanto ad alcune delle conseguenze o degli effetti accompagnanti la qualità in discorso, non sembra al Moore legittimo nel caso della morale.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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