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      a) un òros del soggetto, quando esprima l’insieme delle qualità che costituiscono la definizione di questo;
      b) un ìdion, quando esprima delle qualità che non figurano nella definizione del soggetto.
      2) Nel caso invece delle proposizioni dell’altra specie, quelle cioè nelle quali il predicato ha maggiore estensione del soggetto (è il caso più ordinario), il predicato è chiamato da Aristotele:
      a) un ghenos, quando le qualità da esso espresse siano fra quelle che figurano nella definizione del soggetto;
      b) un sumbebekòs, quando ciò non sia.
      Il contrasto tra il caso dell’òros e del ghenos, e quello dell’ ìdion e del sumbebekòs, è indicato da Aristotele col dire che nei primi due casi le qualità, designate dal predicato, appartengono all’essenza (ousìa) del soggetto, o a ciò che esso è «in se stesso», mentre negli altri due casi le qualità espresse dal predicato sono dette appartenere al soggetto solo «per accidente» (katà sumbebekos).
      Vi è pure un’altra frase frequentemente usata da Aristotele per esprimere lo stesso contrasto, ed è quella che consiste nel dire che colle prime due specie di predicati si esprime il che cosa sarebbe essere (to ti en einai) del soggetto. Da questa frase risulta ancora più chiaramente la coincidenza del suddetto contrasto con quello che si esprime ora opponendo le proposizioni sintetiche alle analitiche. Si tratta infatti in ambedue i casi della differenza tra le proposizioni nelle quali al soggetto sono attribuite delle proprietà che esso è ammesso possedere pel solo fatto che esse sono espresse dal nome con cui lo chiamiamo (e le quali quindi non potrebbero mancare senza che esso cessasse di essere ciò che abbiamo supposto che fosse), e le proposizioni invece nelle quali al soggetto sono attribuite delle proprietà che esso potrebbe anche non avere senza per questo cessare di essere ciò che è, in altre parole, senza cessare di meritare il nome con cui lo abbiamo chiamato.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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