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      Ma questo non è certo il senso che l’autore intende attribuire alla parola esperimento quando oppone, per esempio, la meccanica dello sviluppo agli altri rami della biologia.
      Neppure vedo come si possa giustificare il privilegio che l’autore sembra volere attribuire all’esperimento, inteso nel senso visto sopra, come mezzo per raggiungere quelle che egli chiama le «spiegazioni causali» o per riconoscere le ragioni delle leggi e delle uniformità che i fatti presentano.
      La distinzione stessa tra spiegazioni causali a spiegazioni non causali mi sembra sfornita di base. Vi sono forse spiegazioni che consistono in qualche cosa d’altro che nel riconoscere la dipendenza dei fatti o leggi, che si tratta di spiegare, da altre più generali da cui derivino come conseguenze? Dicono forse qualche cosa di più quelle spiegazioni che pure si considerano d’ordinario come più «causali» di tutte le altre, voglio dire le spiegazioni che dà la meccanica?
      La tendenza, che l’autore ha del resto in comune con tutta una scuola di filosofi e di teorici della conoscenza, ad attribuire alle spiegazioni meccaniche uno speciale carattere di «razionalità», come se esse sole riconnettessero i fatti alle loro «vere» cause, è stata giustamente caratterizzata come un aspetto della tendenza generale della mente umana ad accettare come primordiali, e a riguardare come non bisognevoli di ulteriori spiegazioni, solo quei fatti o quelle leggi che si riferiscono alle nostre esperienze più abituali, e che per la loro frequenza e famigliarità vengono ad apparirci come più «naturali» di tutte le altre; tendenza che, come ha notato recentemente il Guastella (nei suoi Saggi sulla teoria della conoscenza), costituisce il presupposto implicito della maggior parte dei sistemi metafisici.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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