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      La volontà di pensare, e di tener presenti e fisse innanzi alla mente determinate «idee», non solo è compatibile col funzionamento normale delle nostre facoltà intellettuali, ma ne è anzi, fino a un certo grado, una condizione indispensabile; condizione che si trova particolarmente realizzata nel caso dei grandi scienziati, che appunto si distinguono - e abbiamo in proposito la nota confessione di Newton - per il loro potere di concentrare al massimo grado l’attenzione, e tutte le forze dello spirito, sopra i soggetti o le questioni che attendono a trattare o a risolvere.
      Tutto il contrario è da dire invece del potere, e dell’influenza, che le nostre emozioni riescono ad esercitare sul nostro assentimento o sulla nostra disposizione a riconoscere per vere determinate opinioni o credenze. Questo potere e questa influenza non possono invece crescere al di là di un certo limite senza che, per tale solo fatto, diminuisca il nostro potere di adattare le nostre opinioni e le nostre aspettative ai fatti ai quali esse si riferiscono, - in altre parole, senza che noi andiamo incontro a una diminuzione delle nostre facoltà di conoscere, di capire, e di servirci di ciò che conosciamo per guidarci nella nostra condotta.(118)
     
      L’osservazione dei casi estremi e patologici, in cui ciò appunto si verifica, serve da lente d’ingrandimento anche per porre in vista un’altra deficienza nell’interpretazione corrente della dottrina del Will to believe, in quanto questa s’intenda come un’affermazione dell’efficacia della volontà e dei desideri sulla persuasione, e sul nostro accettare come vere le opinioni che abbiamo interesse di ritener tali, o la cui verità equivarrebbe alla soddisfazione di qualche nostro bisogno, passione, o ideale.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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