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      Avere una determinata credenza - una credenza diversa da un’altra - non significa, per il pragmatista, se non aspettarsi qualche cosa di diverso da quello che egli si aspetterebbe se avesse invece l’altra credenza.
     
      Questa identificazione del «credere» con «l’aspettarsi» può apparire una limitazione arbitraria del significato della parola «credere». Aspettarsi qualche cosa equivale bensì a dire che crediamo che la tale cosa avverrà, equivale cioè ad avere una determinata credenza; ma non pare altrettanto accettabile che ogni credenza implichi qualche aspettazione.
      Accanto infatti a quelle tra le nostre credenze che si riferiscono al futuro, ve ne sono altre, e certo non in minor numero, che, apparentemente almeno, si riferiscono soltanto a fatti presenti o già accaduti.
      Se tuttavia esaminiamo più da vicino tali credenze, ci accorgiamo facilmente come anche per esse il riferimento al futuro formi parte essenziale del loro significato.
      Abbiamo di ciò un esempio tipico nel caso, considerato appunto dal Berkeley, dei giudizi sulla esistenza degli oggetti materiali.
      Nella sua Teoria della Visione - che è in fondo una vera e propria teoria della «previsione» - il Berkeley, opponendosi all’opinione corrente, secondo la quale la grandezza, la posizione, la distanza degli oggetti sarebbero da noi vedute come ne vediamo il colore, mostrava come le nostre sensazioni visive siano, per se stesse, affatto incapaci di fornirci immediatamente tale genere di informazioni, e che le distanze, le forme, le dimensioni degli oggetti che vediamo sono da noi, non «vedute», ma «prevedute», o inferite dai sintomi o segni che di esse ci forniscono le sensazioni visive propriamente dette.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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