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      Le distanze, le forme, le dimensioni sono cioè da noi, in certo modo, lette e interpretate con un processo analogo a quello col quale perveniamo a leggere e a interpretare qualunque altra specie di «segni»; noi possiamo dire di «vederle» solo in senso metaforico, come diciamo, per esempio, di vedere l’ingegno o la stupidità di una persona, quando leggiamo un suo scritto.
      I nostri giudizi sulle distanze, le forme, le dimensioni che gli oggetti «hanno» sono cioè giudizi, non su sensazioni attuali, ma su sensazioni che potremo o potremmo avere.
      Proseguendo in questo ordine di ricerche, il Berkeley fu condotto ad estendere la stessa conclusione anche alle asserzioni riferentisi, non più soltanto alla posizione o forma degli oggetti, ma anche alla loro stessa «esistenza»; a riconoscere cioè che, anche quando affermiamo che un dato oggetto «esiste», ciò che asseriamo non è la presenza, di qualche determinata sensazione od esperienza, ma invece solo la nostra aspettazione che certe sensazioni od esperienze si verificheranno, o si verificherebbero, date certe condizioni.
      Meglio che colla frase «esse est percipi», adoperata dal Berkeley per riassumere la conclusione da lui raggiunta, questa potrebbe venire formulata dicendo: «esse est posse percipi». Ben lungi, infatti, dal distruggere la distinzione fra «esistere» ed «essere percepito», il Berkeley ne chiariva precisamente il fondamento e il significato mostrando che l’essere o l’esistere di una cosa non è che il «potere essere» di determinate esperienze.


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Scritti filosofici
di Giovanni Vailati
pagine 483

   





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