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      Eloquente, con una dizione esatta, egli sa far ingoiare, con garbo, agli onorevoli tutto quel diavolo che vuole, spruzzando la sua prosa tersa ed elegante di una ironia e di un sarcasmo che non trovate se non in bocca degli oratori altamente educati.
      I discorsi di Sheridan si leggevano una sola volta e si mettevano in libreria. Quelli di Filippo Turati si leggono e si consultano sovente come quelli di Burke, perché sono densi di pensieri, pronunciati in una lingua che dovrebbe far testo nelle scuole, caldi dell'anima dell'oratore che vuole condurci ad espropriare la società a beneficio di tutti.
      Va sulla piattaforma con riluttanza. Preferisce il tavolino di redazione al palco dinanzi la folla che lo saluta col battimano fragoroso e lo ascolta a bocca aperta. Nemico dei parolai e degli smargiassoni che sciolgono i problemi con qualche frase alcoolizzata, non capisce la piattaforma che quando si ha qualcosa da dire. È una tolda che lo impensierisce, che lo mette in orgasmo, che lo obbliga a buttar giù note, a raccogliere fatti, a pulire della prosa che andrà perduta per l'aria, perduta fino a quando avremo anche noi il quotidiano che darà il discorso tale e quale è pronunciato. Ma una volta che egli è in piedi, pieno dell'argomento, il suo discorso esce come dal libro di un grande uomo.
      Tutti lo hanno sentito parlare. La sua eloquenza non è l'eloquenza bolsa che va in giro per il comizio a mendicare gli applausi. È l'eloquenza di un grande oratore. Qualche volta pare una tempesta di pensieri.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302

   





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