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      Il sole completava la nostra contentezza. Vi entrava un po' di sbieco dalla prima finestra e veniva a frangersi sui bastoni di ferro della seconda, lasciando cadere dei barbagli fino al suolo e portandoci del calore e della gaiezza che si diffondeva dappertutto.
      La sola noia del luogo erano le mosche - delle mosche grosse come quelle che vivacchiano intorno ai letami - delle mosche pesanti che aleggiavano con un ronzìo greve, che parevano sonnolente anche nell'aria, che si fermavano sul nostro naso, sulle nostre orecchie, sul nostro collo, sulle nostre labbra, sulle nostre mani, senza paura di essere schiacciate dalla nostra collera. Si cacciavano via e ritornavano a noi con una insistenza feroce e con una ostinatezza che ci faceva perdere la pazienza. Più e più di una volta fummo obbligati a rincorrerle e a dar loro una caccia disperata coi fazzoletti, inseguendole fino alla inferriata. Ma era della fatica sprecata. Ricomparivano a sciami più inviperite di prima. Erano le nostre arpie.
      In camerata non eravamo più che delle cifre. Gustavo Chiesi era divenuto il numero 2555, Carlo Romussi il 2556, don Davide Albertario il 2557, Bortolo Federici il 2558, Paolo Valera il 2559, Costantino Lazzari il 2560 e Achille Ghiglione il 2561.
      La prima volta che si spalancò il nostro cancello e che entrò un sottocapo con due galeotti a fare la distribuzione degli asciugatoi e delle lenzuola, ci fu un po' di confusione. Nessuno era ancora riuscito a tenersi a mente il proprio numero di matricola e a convincersi che non eravamo più che dei numeri.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302

   





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