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      Il sei settembre, il giorno in cui ci rase i baffi, era commosso come un minorenne perduto, nel buco di una cella di rigore. Egli sapeva che cosa volevano dire questi crepacuori. Nei baffi era l'uomo. Radendoli, radeva il cittadino e non lasciava dietro il rasoio che un numero di matricola.
      Eravamo in sette e l'operazione durò più di un'ora. Andammo uno dietro l'altro dal barbitonsore, senza dirci una parola. Ciascuno di noi sembrava compreso del sacrificio, tranne forse Gustavo Chiesi, il quale conservò sempre l'attitudine dello stoico. Sotto il rasoio a più d'uno di noi si riempirono gli occhi. Federici e don Davide furono del numero. Non si aveva paura, nessuno pensava alla paura, ma l'emozione, più forte di tutti, rompeva la diga.
      Mentre mi si radeva, con la guardia carceraria seduta in faccia, mi venivano le lagrime in bocca come a un bimbo sculacciato!
      - Coraggio! diceva a ciascuno di noi il barbiere. I baffi e la barba ricresceranno più vigorosi di prima.
      - E voi, don Davide, gli domandai qualche giorno dopo, perché avete pianto, se non avete mai avuto baffi e se vi facevate radere il labbro superiore anche prima?
      - Perché mi si infliggeva una punizione infamante. Perché mi si riduceva il 2557.
      Dall'emozione profonda passammo all'ilarità clamorosa. A mano a mano che uno di noi rientrava nel camerone con la faccia galeottizzata, si scoppiava in una risata sonora. Sembravamo dei mostri. Salve le proporzioni individuali e la voce, potevamo benissimo scambiarci per dei galeotti sconosciuti.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302

   





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