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      Arrivai in faccia a un portone spalancato e sormontato dallo stemma del carcere giudiziario, con la lingua che penzolava dai denti come quella di un cane. Ero digiuno, con la bocca secca. La lingua mi sembrava un pezzo di carne dalla pelle ruvida in bocca come un castigo. A sinistra dell'entrata, era un tubetto di ottone che usciva arcuato dal muro e lasciava cadere una colonnuccia d'acqua. Il rumore della caduta sulla pietra decompose la catena. Malgrado gli ordini imperiosi dei carabinieri che avevano fretta di sbarazzarsi di noi per andare a cena, nessuno volle muoversi prima di essersi saziato di acqua fresca. Quando venne la mia volta, rimasi disilluso. Per la mia bocca, era un'acqua di un sapore marcioso. Dopo una risciacquata e una golata, la buttai in terra come se fosse stato un liquido avvelenato. Puah!
      Lo smanettamento, la consegna delle buste coi denari e la registrazione dei detenuti durò una buona mezz'ora. I viaggiatori sembravano stracchi morti. Nessuno diceva una parola. Qualcuno sbocconcellava la pagnotta e qualche altro rimaneva in piedi. Io fui l'ultimo, perché mi ero posto dietro tutti, sulla panca in giro dello stanzone immenso. Mi si conosceva di nome e questo mi suscitava la speranza che avrei potuto indurli a farmi comperare qualche vivanda per la cena. Ma era troppo tardi. Erano quasi le nove. E i detenuti, a quest'ora, dovevano avere la pancia piena. Se avessero potuto aiutarmi, lo avrebbero fatto volentieri. La sola cosa, che potevano fare per me, era di mettermi in una stanza solo e di offrirmi un bicchiere d'acqua fresca con del limone del loro fiasco.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302