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      Mi sono servito dell'esempio più difficile. Gli esempi facili sono con le finestre sopra o sotto o a fianco della mia. Se non ci sono le piantelle (guardie) nel cortile che adocchiano, io sono sicuro, con la "colomba", di soccorrere e di poter essere soccorso.
      Il linguaggio dei detenuti è di una semplicità alfabetica. Lo si impara in mezzo minuto. Ma non si può servirsene che dopo avere esercitato i pugni sulla parete per dei mesi.
      Le lettere dell'alfabeto del prigioniero sono ventuno e ciascuna di esse corrisponde a un numero:
     
      a b c d e f g h i l m n o
      1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13
      p q r s t u v z.
      14 15 16 17 18 19 20 21.
     
      Io e un altro siamo in due celle divise da un muro. Non ci conosciamo, non ci siamo mai visti e forse non ci vedremo mai. Ma l'uno desidera di sapere chi è l'altro e tutt'e due vogliamo narrarci la storia dei nostri delitti.
      Se io batto undici volte, voi avrete capito che ho battuto una m, mentre se non do che tre colpi avrò segnato il c.
      Sono io che invito il compagno dell'altra cella a fare conoscenza o a parlare con me.
      Incomincio con una sfuriata di pugni che pare traduca dell'allegria.
      Egli mi risponde con altrettante battute precipitate che rappresentano il saluto.
      Lo interrogo con due colpi secchi e serrati che vogliono dire: sei pronto?
      Egli mi risponde con due battute l'una dietro l'altra che equivalgono a "sono pronto, parla".
      Supponete ch'io voglia domandargli: - Chi sei?
      Batto prima tre colpi, poi otto, poi nove, poi diciassette, poi cinque, poi nove.


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I cannoni di Bava Beccaris
di Paolo Valera
pagine 302