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      Mi alzavo con tutto il vicinato alle quattro del mattino e non rientravo che a sera fatta, quando tutto il vicinato era fuori sulle ringhiere, se d'estate, o lì per andarsene a letto, se d'inverno. Tuttavia mi si voleva un po' di bene. Dico un po', perchè tra i poveri non sono possibili l'entusiasmo e la passione. Si è troppo presi dalla necessità della vita. Si lavora tutto il giorno, si arriva a casa più morti cha vivi, si mangia una tazzina di minestra condita con dieci centesimi di lardo, e si cade supini sul pagliericcio.
      Se giungevo nel momento in cui rovesciavano il grosso culo di polenta sul vechio tagliere, il marito diceva: Maria dagliene una fetta intanto che è calda. E non c'era verso di rifiutarla, poichè anche le figlie mi piccavano con una frase: Lascia, dicevano alla mamma, è segno che ha schifo di noi.
      Il diavoleto era al sabbato.
      Il padre era un ottimo spaccalegna nella sostra a due passi dalla porta, che proietta la sua facciata sul naviglio. Guadagnava, come me, una e venti al giorno. Ma aveva un difettaccio maledetto, di non saper consegnare alla moglie l'intera settimana. Il buon Giuseppe, appena si sentiva i quattrini in coccia, entrava dal tabaccaio, caricava la genovese e trac un pif-puf e l'altro, trincava dieci o dodici cicchetti di acquavite, ch'egli chiamava uccellina. E siccome negli altri sei giorni non beveva che acqua pura, così gli toccava spesso di barcollare sulle gambe. Che scene appena compariva ubbriaco! La moglie gli andava sopra coi pugni, gli strappava febbrilmente il resto dalla tasca e gli menava da manrovesci quanti erano i bicchierini che aveva bevuto.


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Alla conquista del pane
di Paolo Valera
Editore Cozzi Milano
1882 pagine 237

   





Maria Lascia Giuseppe