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      Ma in tutti noi si sentiva che lasciavamo in quella buca pił che un amico un fratello. Io? Io un padre. Per un pezzo a cena o sulle ampie strade ci domandavamo: E Dossi? Povero Dossi! Ti saluto e spargo anche sulla tua fossa un corbello di semprevivi. Addio.
     
     
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      Il Balin invece, come ho gią detto, era un razzo continuo. Non sapeva dove stava di casa l'ipocondria e trovava modo di allegrare anche quelli piombati nella mutria della bolletta. Sapeva tutto. Imitava il canto del gallo, latrava come un alano, ruggiva come una leonessa, digrignava come una scimmia, sibilava come un serpente virgiliano, tubava come una colomba, gorgheggiava come un usignolo e diventava pił lupo del lupo stesso. Quando ci smarrivamo sulle strade di notte, egli si metteva le dita in bocca e mandava fuori tali strazianti ululi, che i paesani accorrevano spaventati. Se non si aveva denari, con lui si mangiava ugualmente. Egli si vestiva da pagliaccio, coi calzoni nankini, sulla prima piazzetta che incontravamo, tirava fuori le sue palle, il suo imbuto, i suoi bindelli e in un minuto ci coronavamo di contadini. Si buttava sulle mani, faceva un paio di salti mortali, la tartaruga, infilava tre, quattro, cinque scranne sulla punta del naso, mangiava la stoppa in fiamme, si tirava su dal gozzo una filata di bindelli bianchi, rossi, verdi e poi, prima di "eseguire" l'ultimo giuoco, "il pił difficile e il pił sorprendente," andavamo io e lui alla questua col piattello. "Da bravi, sciori.


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Alla conquista del pane
di Paolo Valera
Editore Cozzi Milano
1882 pagine 237

   





E Dossi Dossi Balin