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      Non gli do tempo di metterli nella valigetta. Gli vado sopra con un colpo che lo stramazza cadavere, o lo lascia privo dei sensi, e lo finisco con un altro colpo mortale. S'intende che se mi valgo della forza fisica devo avere il pugno dell'Ursus del Quo vadis, un pugno che sfracella il cranio come se fosse di creta. Se non ho la forza del gigante licio, devo accontentarmi di un'arma da fuoco o di una lama affilata, due arnesi sempre pericolosi per chi non sa maneggiarli bene, o per chi ha la sfortuna di colpire qualche cosa dura nella saccoccia o di andare su un maledetto bottone che svia la palla o spunta il coltello o il pugnale.
      Il pugno del Lecomte è venuto meno al suo compito e ha lasciato il fattorino al suolo a gridare come un disperato: assassino! Io invece che ho lasciato sul pavimento un morto, discendo tranquillamente le scale col sigaro in bocca e non esco senza salutare benevolmente la portinaia.
      Il fattorino comincia a puzzare, si sfonda la porta del mio appartamento, si rimane inorriditi e la polizia sguinzaglia una legione di questurini alla ricerca del negoziante Antonio Migliavacca, possidente che non esiste.
      Io, Lacenaire, mi diverto leggendo degli sforzi di tanti agenti e consumo allegramente la somma ingente che c'era nella valigetta della mia vittima.
      Mi occupo dei plagi perché i giornali francesi, in data del ventisei luglio 1899, me ne descrivono uno che chiamerei incredibile, se ci potesse essere qualcosa di incredibile nel mondo criminale. Ho detto fin da principio che gli assassini di Notarbartolo devono avere copiato o il Jud o il Raubaud.


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L'assassinio Notarbartolo o le gesta della mafia
di Paolo Valera
pagine 313

   





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