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      La sua penna non s'è confusa. È stata senza concorrenti. Era come un ferro rovente che strisciasse sulla cote per mandare scintille e stridori. Egli non ha scritto: ha inciso. I suoi libri sono state battaglie. Egli ha avuto un culto per la verità oggi demolita dal ventre. Sincero, convinto che il documento della vita è la produzione più importante nei conflitti sociali non ha risparmiato neppure sua madre, manesca, brutale, selvaggia, feroce, ardita, poco affezionata alle cose dell'altra vita, irreligiosa, capace di prendere Cristo per la barba. Se non fosse vero che lo stile è l'uomo, bisognerebbe fare un'eccezione per Francesco Domenico Guerrazzi. È tutto lui. È lo specchio che lo riflette cerebralmente. Violento, eloquente, indipendente, incorruttibile, incapace di qualunque ipocrisia. Gli ultimi anni in cui visse Domenico Guerrazzi sono stati i più foschi, i più venali, i più turpi, i più immondi, i più livreati della livrea regia del cinquantenario. Non c'erano scrupoli. I giornalisti si erano divisi. Da una parte si voleva l'epurazione, e dall'altra la cuccagna. Puritani e immorali si contendevano il terreno in nome della purezza dei costumi, delle libertà politiche, delle coerenze parlamentari. Gli uni erano altezzosi, gli altri villani.
      L'accusa più terribile dei tempi del Lanza, del Sella e del Cambray-Digny era quella di austriacante o di avere favorito in qualche modo l'Austria. Così è stato enorme il baccano fatto intorno alle lettere di Raffaele Sonzogno vendute dal Mayer (Montazio) al partito della Perseveranza.


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Il cinquantenario
Note per la ricostruzione della vita pubblica italiana
di Paolo Valera
Casa Editrice Sociale Milano
1945 pagine 97

   





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