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      I muri sudavano. Era un sudore che restava alle dita come la gomma. Sul tavolazzo non si stava meglio. I seduti dovevano tenervi le gambe piegate fino agli occhi con le dita allacciate. Quando c'era qualcuno che aveva bisogno di spandere acqua, si voleva morire. La tinozza lasciava venir fuori un odore che asfissiava.
      Non c'era posto, ma il carceriere era un diavolo che non faceva caso a quello che dicevamo. Apriva e ne cacciava dentro degli altri senza tanti complimenti. Lui non aveva tempo da perdere. Conosceva nessuno e trattava tutti alla spiccia. Cinque o sei erano vestiti bene. Si capiva che dovevano essere persone di considerazione perchč avevano gli anelli brillantati sulle dita che abbagliavano la vista. Un signore grosso, col pancione dell'uomo che mangia bene, faceva compassione. Si asciugava gli occhi e diceva che la sua famiglia avrebbe pensato male a non vederlo andare a casa. C'erano degli altri nella stessa condizione. E la mia Margherita? Mi pareva di sentirla piangere. La vedevo andare alla finestra tutta disperata a cercarmi gių nell'ombra o all'uscio della scala ogni volta che sentiva i passi di qualcuno. In dieci anni di matrimonio non ho mai dormito fuori di casa. E una povera donna che voglia bene al marito si impressiona.
      In pochi nasceva il bisogno di parlare. E quelli che dicevano qualche cosa era per lamentarsi di essere stati portati via dalle loro famiglie innocenti. Io ero sempre in piedi che aspettavo il posto d'uno del tavolato. Mi ero straccato a stare lė senza muovermi.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





Margherita