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      Continuavano a dare dei giri anche quando si diceva loro che i polsi facevano sangue.
      Don Davide era conosciuto da tutti, ma lui, personalmente, non conosceva che l'avvocato Romussi, Valera e Zavattari. Non si capiva se era seccato in mezzo a tanti ignoti che lo guardavano come una bestia rara. Il capitano lo squadrò dal capo ai piedi, gli girò intorno col fare di un domatore di belve, e si voltò dall'altra parte percotendo leggermente lo stivalone. Si capiva che l'aveva su coi preti o che ci aveva gusto a vederne uno nelle peste.
      Don Davide pareva imbronciato. Rispondeva al buon giorno di qualche amico con la voce grossa di chi è in collera con sè stesso.
      La sua veste talare ambrosiana e il suo paltò di panno nero sentivano il bisogno di parecchie spazzolate. Indossava la veste, cinta dalla fascia di seta nera, dal giorno in cui dieci tra carabinieri e soldati di linea entrarono nella casa paterna di Filighera ad arrestarlo. Il suo paltò polveroso era stato buttato nell'angolo della cella dal momento che vi era entrato.
      L'avvocato Bortolo Federici, noto a molti come repubblicano, attirava l'attenzione di parecchi per il suo cappello Oberdan nero, sopra un "completo" caffè scuro. Zavattari era abbattuto, dimagrato, colle guance infossate e biancastre e con le mani che tremavano come se avesse avuto la febbre. A uno degli arrestati, che gli aveva dato il buon giorno, rispose che era ammalato, gravemente ammalato e che, se non lo si lasciava andare presto, sarebbe morto in prigione.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





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