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      Il vagone cellulare del mio secondo viaggio apparteneva al tipo vecchio. Era composto di venti celle, divise da un piccolo corridoio longitudinale, con un largo all'entrata per i rappresentanti dell'arma regia.
      Una volta entrati, si è sommersi nella penombra anche col sole allo zenit, perchè non ci sono finestre alle pareti dei fianchi.
      La cella era più angusta e più nauseosa di quella che mi aveva condotto nel reclusorio. Col sedile di legno e con le pareti insudiciate di sputacchi e di mucillaggine nasale, mi sentivo in una cassa da morto in piedi, con un traversino sotto il sedere. Il legno mi accarezzava dappertutto. I piedi stavano più male. Si trovavano sopra uno strato molle e viscido e non potevo alzarli. Per quanto facessi, non riuscivo a tener su le ginocchia sull'uscio. Si respirava l'atmosfera riscaldata dall'alito dei detenuti. Lo sfiatatoio era il contrario di un conduttore d'aria. Si crepava dal caldo e i malviventi imploravano un sorso d'acqua. Non so da dove venivano perchè a tutte le stazioni se ne caricavano e in alcune se ne scaricavano.
      Il brigadiere che aveva in consegna le stie, era un uomo tarchiato con una faccia da simpaticone. Quando gli si diceva di essere buono e di provvedere gli assetati di un fiasco d'acqua, andava sulle furie dicendo che non voleva essere buono. I buoni non facevano carriera e lui era già sulla lista dei futuri marescialli.
      - Consideratemi cattivo e mi troverete buonissimo.
      E io, davvero, ero della sua opinione. In fondo alla mia nicchia, lo consideravo uno di quegli arnesi di sentina che godono a far patire la gente tribolata, come godevano i carabinieri dell'Andalusia del 1893-94, i quali davano pane e merluzzo ai morenti di sete e nerbate a coloro che desistevano dal correre intorno la stanza giorno e notte!


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





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