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      Dalle finestrucole, la nave ci dava l'impressione che stesse per sommergere. Il vento muggiva disperatamente e incalzava i cavalloni che venivano a schiantarsi sui suoi fianchi come fasci di verghe d'acciaio. Nella stiva, si moriva. Cedetti e incominciai a recere come tutta la catena. Senza poterci staccare o avere dei recipienti, ci sbattevamo le eruzioni gli uni sugli altri, imbrattandoci da far pietą ai sassi. La notte fu ancora pił spaventevole. La nave, violentata da tutte le parti, pareva in deriva. I venti scatenati le andavano sotto e la elevavano sui flutti come se avessero voluto scaricarla del suo carico. La nostra catena incominciava a temere un naufragio. Dovevamo essere orribili. Seduti o sdraiati nelle chiazze della materia eruttata, recitavamo tutti dei pater e degli ave domandando perdono a Dio dei nostri peccati.
      In un momento in cui fummo invasi da un terrore indicibile, chiamammo il brigadiere all'uscio della stiva e lo pregammo di metterci in condizione di poterci aiutare con le nostre gambe e con le nostre braccia in caso di disastro. Lo supplicavamo con tutte le parole carezzevoli a nostra disposizione. Gli dicevamo che eravamo condannati a scontare una pena in un ergastolo, non a naufragare in blocco, legati come un sol uomo. Se non ci dava modo di salvarci, il delitto del brigadiere sarebbe stato un delitto peggiore del nostro.
      A mano a mano che parlavamo, il terrore ci era entrato fino nel midollo spinale. Ciascuno di noi gareggiava di vigliaccheria. Piangevamo e imploravamo la vita come tanti miliardarii attesi sulla spiaggia dai parenti straziati dal dubbio.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





Dio