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      I sussulti cupi delle catene dei galeotti che martellavano il ferro mi passavano dalle viscere come un tremuoto. Io guardavo. Guardavo con gli occhi smarriti nell'incendio, come dinanzi a uno spettacolo fantastico.
      Furono i mozzi che mi scossero. Era venuta la mia volta. Mi chiamarono vicino alle due montagne, scelsero un catenone e una maniglia e mi fecero sedere su uno sgabellotto, vicino all'incudine che si levava un palmo dal terreno.
      - Non fatemi male, dissi loro.
      - Non fargli male che è di zuccaro!
      E quasi tutti i ferratori - che erano degli altri forzati - scoppiarono in una risata che mi andò al cuore come un punteruolo.
      - Dammi qua la gamba, piagnolone!
      Mi misero il piede sull'incudine, mi inanellarono il ferro al disopra della caviglia e poi coi martelli si misero a battere e a ribadire i chiodi senza pietà alcuna. Avrei giurato che godevano del mio strazio. A ogni lamento che voleva frenare le brutalità del martello, mi rispondevano con parolacce che mi facevano male quanto il peso che mi avevano attaccato al piede.
      - Dammi qui la catena da appendergli all'orologio, disse il ferratore al mozzo.
      E me la ferrarono all'anello con dei colpi spietati che davano loro piacere.
      - Basta, basta, Signore Iddio!
      Mi rialzai e prese il mio posto il mio compagno di branca, cioè l'uomo col quale stavo per essere appaiato chi sa per quanti anni. Ero così assorbito dalla mia sciagura, che non ebbi uno zinzino di compassione per il mio futuro fratello di catena. Incatenati l'uno con l'altro, ci si condusse in un ufficio ove venimmo matricolati, lui col numero 3446, io col numero 3414.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





Signore Iddio