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      Il muro, col consenso dei compagni, era stato trapassato nella penultima notte. I compagni, all'ultimo momento, ebbero paura. Sterpone, che delirava di mettere le mani nel sangue dei suoi falsi accusatori, non esitò un minuto. Spostò i quadrelli, entrò nella cucina come un gatto, levò l'uscio in un attimo, s'arrampicò sul muro strisciando fin dietro la garetta, e coi rompimenti del tuono si lasciò giù dal bastione colla leggerezza e l'agilità dello scoiattolo.
      Andò al suo paese, precipitò sui falsari come una iena e andò a Roma a lavorare fino a quando venne denunciato da un compaesano che lo riconobbe.
      Lo rividi a Finalborgo invecchiato, con una sentenza a vita. Era stato nei bagni di Civitavecchia e di Orbetello ed aveva lavorato, come compositore di carattere, nella prigione di Regina Cœli di Roma.
      È ancora vivo. Aveva fatto conoscenza con una quindicina di bagni penali. Lo si può dire l'Ebreo errante della vita galeottesca.
      In sette anni non feci altro che calzette e qualche maglia coi ferri lunghi. Chiusosi il bagno di Genova, si impiantò da noi una calzoleria e un lavorerio di tessitura. Imparai a fare il tessitore.
      Non guadagnavo che sei o sette lire il mese, dalle quali dovevo dedurre il sessanta per cento per il Governo, ma mi piaceva. A poco a poco finii per amare il telaio come una cosa viva. Il rumore lento e monotono dei battenti che spingevano l'ordito tra un colpo di spola e l'altro, suonava al mio orecchio come una melodia che scendeva nel mio animo esulcerato.
      Il tessuto che si avvolgeva sul cilindro, aveva tutte le mie carezze.


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Dal Cellulare al Finalborgo
di Paolo Valera
Tipografia degli Operai Milano
1899 pagine 316

   





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