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      Col fascetto di legna da accendere il carbone dondolante dal mignolo, con un cencio di patate appeso al braccio o con una manata di verze o dieci centesimi di bietole. Non sanno passarsela dal cenciaiuolo o dalla cenciaiuola che sbaiaffa e sbatte loro in faccia la gozzoviglia degli stracci per niente. Chi li vuole? Una veste di seta per uno scellino e mezzo. Le poveracce la palpano, la slargano, vanno su colle mani fino alla cintola, ne percorrono, tremanti, la bottoniera e ritornano la mano nella mano. Degli stivali di capra pura per tre pence! Avanti donne! Chi ha tempo non aspetti tempo. Delle mucchiate di calze colorate, intignate, sudice, rognate, col pedule, senza pedule, col cappelletto forato dall'unghia o il calcagno consumato dalla pelle squamosa passata di gamba in gamba, discese da tutti i gradini delle moltitudini che si sbattono tra il si e il no del martello quotidiano, senza che mai i ferri ne abbiano riprese le maglie scappate o l'ago ne abbia tassellate le rotture o rammendati i buchi.
      - Su, a venti centesimi la dozzina!
      Ecco la bellezza giudaica che si porta il corredo da sposa dal mercato delle sottane fruste. Una busta raccattata dal cenciaiuolo. Dei fiori artificiali scopati fuori da un uscio colle immondizie. Un cappellaccio brigantesco ringalluzzito dalle piume slavate dalla piovana e gualcite dal vento. Un ulster di due scellini, dal bavero spelato e unto dalla treccia delle altre, spelato ai gomiti e sforato alle ascelle, con tre bottoni di madreperla e due color oliva!


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I miei dieci anni all'estero
di Paolo Valera
pagine 147