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      Dopo, fino alle dodici e venti minuti, il presidente, pur tenendo questo sistema, sceglie tra i primi avversari dell'ultimo controversista. Ha parlato un monarchico. Ha la preferenza un gladstoniano o un radicale o un unionista.
      È tra queste pareti, in queste sale senza pretese, che si domanda la dimissione del ministero, che si ritirano, telegraficamente, i generali inetti o incapaci dai campi di battaglia e si inviano altri, creduti intelligenti, a sostituirli e che si biasima o si loda la condanna di un magistrato, che si accusano gli uomini pubblici, che si denuncia l'ingiustizia di un giornale, che si dichiara una tassa giusta o ingiusta, che si sviscerano i problemi del lavoro e dell'esistenza, che si approvano o si disapprovano i matrimoni reali e che si rivedono le bucce al bilancio del tesoriere dello Stato. Ma proviamoci a mettere assieme la seduta o un complesso di sedute, che dia al lettore la fotografia delle scene serali.
      Si incomincia alle nove. Entro nella sala dei Vecchi Pensatori. (Ye Olde Cogers' Hall). Passo la public house propriamente detta, e mi trovo nella sala della discussione. Il presidente è in cattedra che pipa davanti al leggio.
      La sala ha qualche cosa di comune col salone del piroscafo. Il soffitto è basso, la forma è disuguale. I vetri che la separano dalla liquoreria sono colorati e illustrati. Delle mani orgogliose sull'elsa, delle corazze fulgenti, dei cosciali scintillanti come il nitrato d'argento, dei bracciali bruniti, dei baffoni che diffondono l'albagia sulla faccia dei cavalieri.


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I miei dieci anni all'estero
di Paolo Valera
pagine 147

   





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