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      Potevo domandargli quello che il regolamento permette; ma io ho l'abitudine di non chiedere nulla nč agli amici nč ai nemici. La cella a pianterreno era triste, angusta, malsana, al disotto del livello della strada. Un buco senz'aria, dove non avevo nemmeno la consolazione del sole a scacchi, perchč avevo di faccia il muro di cinta che me ne dava la sola riverberazione. Io era considerato un transitante, un transitante che vi dovette rimanere sette mesi.
      Il sole che dardeggiava al disopra del piccolissimo spazio che separava la cella dal muro di cinta assorbiva il poco d'aria che v'era, e si rimaneva ansanti, bagnati di sudore, istupiditi, soffocati, con la bocca aperta. Il vitto era lo stesso degli altri luoghi: 730 grammi di pane nero, un piatto di minestra e fagiuoli cotti nell'acqua con soffritto di lardo. Un'ora di passeggio in un cortiletto a raggi, peggio di quello di Milano. Al pagliericcio ho potuto aggiungere un buon materasso che mi ha inviato un amico. Mi vi adagiavo con piacere. Incominciai a sputar sangue. Dovetti ricorrere al medico. Piccolo, capelli e barba, bionda, cortese, giovane, intelligente, istruito, erudito. Un cuore. Curava umanamente.
      Mi ordinō subito il vitto d'infermeria; mi fece dare qualche goccia d'arsenico diluito in un bicchiere d'acqua. Riacquistai la salute.
      Sono rimasto otto giorni senza libri per non chieder nulla al prete. Non parlo mai coi preti.
      Ero stufo. Non aspettavo che il dibattimento. Finalmente un giorno mi si č portato l'atto d'accusa.


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L'uomo pių rosso d'Italia
di Paolo Valera
Arti grafiche Lampo Novara
1933 pagine 69

   





Milano