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      Il direttore Barrago lasciava fare. Il capo guardia puniva perchè ridevano, perchè parlavano, perchè facevano rumore con le catene. Una parola, uno sguardo, un cenno, erano tante colpe. Non si sentiva che lui. La sua voce urlava. La sua grande ira era che al n.° 13 vi fosse un uomo che si rideva delle sue smargiassate e che lo disprezzava con sdegnose alzate di spalle. Egli si vendicava col vitto, col riposo, coll'aria, col passeggio. Mi faceva infliggere con falsi rapporti ingiuste punizioni. Le sue vessazioni, le sue prepotenze, le sue angherie, le sue violenze mi potevano angustiare, non imbestialire. Mettiamo un po' d'ordine alle afflizioni che mi infliggeva. Al suo arrivo io andavo al passeggio in terrazza da tre giorni. Con lui voleva che mi si palpeggiasse all'uscita e all'entrata della cella. Non volli. E mi tolse il passeggio. La perquisizione era arbitraria. Io non ero addetto ai lavorerii, non ero al contatto con alcuno e andavo alla passeggiata fra due guardie che non mi perdevano di vista fino al ritorno. Fece di tutto per provocarmi. Durante le perquisizioni mi faceva guardare in bocca, sulla testa senza capelli, nelle orecchie e in altre parti; mi buttavano tutto all'aria. Non mi lasciavano nulla in cella. Si sfaceva la scopina, si guardava nelle fessure delle pietre, si battevano i muri, si sbriciolava il pane, si frugava nell'acqua, nell'immondizie, nelle materie fecali. Ebbi la pazienza di tacere per un mese. Poi mi lagnai. Era quello che si voleva. Simon mi fece rapporto e il direttore mi condannò a 15 giorni di catena fissa ai piedi della branda senza interrogarmi.


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L'uomo più rosso d'Italia
di Paolo Valera
Arti grafiche Lampo Novara
1933 pagine 69

   





Barrago