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      ma tratterò del suo stato gentilea respetto di lei leggeramente,
      donne e donzelle amorose, con vui,
      ché non è cosa da parlarne altrui.
      Strofe seconda. Premettiamo: la Sapienza santa in quanto si trova quaggiù tra noi è soltanto, secondo S. Agostino, «speranza dell'eterna contemplazione». Quando essa diventa vera contemplazione di Dio in atto, questa Sapienza trascende il nostro mondo, diventa atto della contemplazione pura che sta al di là e al di sopra della vita e allora va a mirare gloriosamente nella faccia di Dio. Quindi (come Rachele) deve morire per attuarsi nella sua perfezione. Come «speranza dell'eterna contemplazione» essa è l'unica virtù che non sia in Ciclo, perché lì essa è diventata contemplazione in atto. Dante rappresenta questo destino della Sapienza santa che dallo stare quaggiù come speranza di contemplazione deve passare nel cielo come contemplazione perfetta, in un dialogo drammatico.
      Un angelo dice a Dio che c'è nel mondo una virtù che risplende fino lassù: infatti la Sapienza, come «spes contemplationis», giunge col suo raggio fino al cielo(492). Il cielo al quale non manca altro che questa virtù della Speranza (perché quella è solo in terra), in quel chiedere a Dio Beatrice non fa altro se non sollecitare il processo di perfezionamento della Sapienza santa in atto della contemplazione pura, cioè augurare che quella che è solo speranza di contemplazione diventi contemplazione. Ma soltanto la Pietà (intesa come debolezza o infermità umana) impedisce (ancora) a questa che è speranza terrena di diventare contemplazione perfetta.


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Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore
di Luigi Valli
pagine 879

   





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