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      Logicissimo invece nel senso mistico che la sua lingua non sia sufficiente a esprimere quelle altissime emozioni mistiche (quali che esse siano state) che nel gergo mistico si chiamavano «la morte di Rachele», cioè di Beatrice.
      Terza ragione: «La terza si è che posto che fosse l'uno e l'altro, non è convenevole a me trattare di ciò, per quello che, trattando, converrebbe essere me laudatore di me medesimo, la quale cosa è al postutto biasimevole a chi lo fae; e però lascio cotale trattato ad altro chiosatore».
      E questa ragione è «nel senso letterale» talmente assurda e incomprensibile che ha fatto sgranare gli occhi perfino alla critica «positiva». La quale si è molto arrabattata a cercar di capire perché mai Dante sarebbe stato «laudatore di se medesimo» se avesse parlato della morte di Beatrice, cosa che adesso «è manifesta alli più semplici». Nessuna lode più alta poteva fare Dante a se stesso che raccontare di essere giunto a un altissimo sviluppo di spirito mistico e a quell'excessus mentis nel quale consiste appunto la morte di Beatrice o, che fa lo stesso, di Rachele!
      E in questo senso si intende anche che egli potesse lasciare ad altro chiosatore, consapevole della profonda significazione di una tale morte, il narrare questa che era sua altissima gloria, per la quale egli prelude in un certo modo alla mistica ascensione nei cieli con Beatrice morta e per la quale salirà fuori di se stesso in ispirito, alla contemplazione di Dio.
      Lasciamo qualche povero di mente a credere che Dante avrebbe incaricato un qualche altro chiosatore di raccontare la morte vera della sua donna vera.


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Il linguaggio segreto di Dante e dei Fedeli d'Amore
di Luigi Valli
pagine 879

   





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