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      Nel 1905 da Cavour mi recai a Torino allo scopo di trovar lavoro. Non trovando occupazione in quella città, mi recai a Cuorgnè ove lavorai sei mesi. Da Cuorgnè tornai a Torino occupandomi in qualità di caramellista.
      In Torino nel febbraio del 1907 caddi ammalato. Ero cresciuto alla pena, sempre rinchiuso, privo dell'aria, del sole e della gioia, come «un mesto fior di serra».
      Venne mio padre, mi chiese se preferivo ritornare a casa o recarmi all'ospedale. A casa mi attendeva la mamma, la buona, l'idolatrata mamma, e vi ritornai.
      Le tre ore di treno le lascio giudicare a chi abbia sofferto di pleurite.
      Mia madre mi accolse singhiozzando, mi mise a letto; vi restai per oltre un mese, e per altri due camminai appoggiato ad un bastone. In fine recuperai la salute. Da allora, fino al giorno in cui partii per l'America, vissi insieme alla famiglia. Quel periodo di tempo fu uno dei piú felici della mia vita. Contavo vent'anni: l'età delle speranze e dei sogni, anche per chi, come me, sfogliò precocemente il libro della vita. Godevo l'amicizia e la stima di tutti: attendevo all'esercizio del caffè e alla coltivazione del giardino di mio padre.
      Ma tale serenità fu presto annientata dalla piú atroce sventura che possa colpire un uomo.
      Un triste giorno mia madre si ammalò. Ciò che soffrí essa, la famiglia, io, nessuna penna può descrivere. Il piú lieve rumore le cagionava spasimi atroci. Quante volte mossi alla sera verso allegre comitive di giovani che s'avvicinavano cantando, pregandoli per l'amore d'Iddio e delle loro madri, di smettere il canto; quante volte pregai gli uomini che conversavano sull'angolo della via, di scostarsi.


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Non piangete la mia morte
Lettere ai familiari
di Bartolomeo Vanzetti
pagine 234

   





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