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      Non tacete, ma gridate dai tetti, a tutti, il delitto che si trama a mio danno per un pugno d'oro, per restaurare col mio sacrificio la reputazione della polizia, perduta in cento scandali e cento insuccessi, che non sa trovare un colpevole in questa marea montante di crimini, ma sa mandare un galantuomo alla galera, per l'attaccamento alla carica e al potere d'un vecchio, sadico del mio sangue e della mia libertà. No, non tacete, ché il silenzio sarebbe vergogna.
      Di soldi, per ora non me ne occorrono. Nel caso ve lo farò sapere. Il regime carcerario è certamente molto migliore qui che in Italia; dico cosí per intuizione e per sentito dire, dacché in Italia non fui mai carcerato. Qui abbiamo ciascuno la nostra cella. È ammobiliata con un letto discreto, un armadio, tavolino e sedia. Fino alle nove è rischiarata dalla luce elettrica. Abbiamo tre pasti al giorno, una bevanda calda due e anche tre volte al giorno. Possiamo scrivere due lettere al mese più una extra ogni tre mesi. Il direttore mi concesse di scrivere parecchie lettere extra fra le quali una è questa. Vi è la biblioteca contenente i capolavori dell'arte e delle scienze. Lavoriamo otto ore al giorno in un igienico locale. Uscita quotidiana. I reclusi? Sono degli infelici, tranne qualcuno vittima delle circostanze o piú disgraziato che colpevole. Io tratto tutti il meglio che posso, ma sto in compagnia dei pochi che sanno comprendermi, conoscono il mio caso, mi stimano e amano. Se conservi le ultime lettere che ti scrissi, rimandale indietro, all'indirizzo di qualche mio amico e assicurale alla posta.


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Non piangete la mia morte
Lettere ai familiari
di Bartolomeo Vanzetti
pagine 234

   





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