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      Una tra le utopie di certi moralisti è quella di credere che i rimorsi siano castigo sufficiente al delitto, come la testimonianza della propria coscienza, dicon essi, è bastevole compenso alla virtù conculcata. Ciascuno ha la sua parte giusta il merito, soggiungono; e quindi vorrebbero escludere ogni idea d'un avvenire immortale, ogni assestamento di conti al cospetto d'un supremo giudice. Togliete questa credenza che è cardine d'ogni religione, d'ogni società, e l'uomo, diventato il peggiore dei mostri, dormirà sonni saporitissimi presso il cadavere della sua vittima; si tergerà le mani del sangue sparso, per mettersi allegramente a tavola.
      Il marchese dell'Aquila si è imbrattato nella strage de' suoi parenti; ritiene prigioniera l'altrui donna; non risparmia la vita d'un bambino, che per valersene ad insozzare la virtù della madre; eppure non comparve mai cosí bello, cosí sorridente. Aspettate che il rimorso venga a trafiggerlo; per uomini di questa fatta non v'ha ritegno che la paura del capestro del boia, quando esiston leggi, o delle corna del diavolo, quando è viva qualche credenza religiosa; ma il cercare, a guarentigia degli atti umani, la probità individuale, la ragione abbandonata a se stessa, la dignità, la coscienza, è sogno di filosofi astratti che non regge alla pratica, all'esperienza.
     
      VIII
     
      LA PRIGIONIERA
     
      Quando la povera Enrichetta tornò alla conoscenza di sè e delle cose, si vide adagiata su di squallido letticciuolo, in un gran camerone, le cui pareti erano intagliate nel macigno; una vecchia guardiana le stava a fianco, spiando il primo alito della vita sopra il suo labbro.


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Racconti popolari dell'Ottocento ligure
Volume Primo e Secondo
di Autori Vari
pagine 484

   





Aquila Enrichetta