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      Agostino Lomellini e Marcello Durazzo andarono a lui, e con mesti accenti gli rappresentarono l’innocenza di Genova, la necessità inevitabile che le aveva messo le armi in mano, il diritto incontrastabile che ella aveva avuto di usarle in quel modo. Gli raccomandarono finalmente una città famosa al mondo, città piena di maravigliosi edifici, appartenenti alla civiltà ed alla religione, città infine che era tanto sua, quanto di loro medesimi; imperocchè il nome dei Botta Adorno trovavasi numerato fra le famiglie patrizie ed inscritto nel libro d’oro.
      Le voci miserande d’una eletta patria, d’un’inclita città, anziché muovere a mansuetudine, non fecero che vieppiù indurare l’intrattabile capitano austriaco. Disse che da nemico era venuto, da nemico voleva trattare Genova; che vincitore era, e contro Genova vinta userebbe la vittoria; obbedissero tutti ed eseguissero quanto era detto nel foglio che in mano teneva. Sincroni scritti narrano che Botta portasse odio a Genova per essere stato suo padre quarantott’anni prima dalla Repubblica, per attentato commesso da lui nel territorio di Ovada, d’ogni cosa spogliato e dannato nel capo, promettendo perfino una taglia a chi l’avesse ammazzato. Ma oltre a ciò il muovevano il suo mal animo, gli ordini dell’Imperatrice, forse anche la cupidigia dell’oro.
      Volgeva il 6 settembre 1746 quando succedeva quanto abbiamo narrato.
      Le intimazioni di Botta erano le seguenti: «Che alle ore ventitre di quello stesso giorno si consegnassero le porte della città alle truppe della regina d’Ungheria; che la guarnigione rimanesse prigioniera di guerra; che i disertori fossero dichiarati con promessa però di perdono; che si consegnassero tutte le artiglierie, armi e munizioni sì da guerra che da bocca raccolte per cagione di guerra; che la Repubblica comandasse a’ suoi popoli, soldati e milizie a non commettere ostilità contro i soldati della regina, contro i suoi alleati e dipendenti; che fossero liberi l’accesso e l’uscita del porto alle navi delle potenze alleate; che fossero notificate le persone e le proprietà dei Francesi, Spagnuoli e Napoletani; che il castello di Gavi si desse subito e rimanesse la guarnigione prigioniera di guerra; che durante quella guerra le soldatesche austriache avessero libero passaggio per tutti gli Stati e piazze della Repubblica; che il doge e sei senatori fossero spediti a Vienna dentro lo spazio d’un mese per implorare la clemenza cesarea e domandare perdono dei passati errori; che si liberassero tutti gli ufficiali e soldati austriaci od alleati d’Austria presi in guerra; che la Repubblica sborsasse incontanente cinquanta mila genovine(1) da dispensarsi ai soldati a titolo di rinfresco e pel quieto vivere, oltre le contribuzioni di guerra, circa le quali ella dovesse intendersi col commissario Chotek; che con ciò gli Austriaci si terrebbero in disciplina e pagherebbero ogni cosa in contante; che la convenzione valesse fino a ratifica o cambiamento da Vienna; che intanto quattro senatori si mandassero ostaggi nella capitale dell’Impero.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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