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      «Non mai, scrive lo storico Botta, si vide un soldatesco furore simile a quello. Certamente se i Genovesi fossero stati, non uomini, ma bestie, con tanta rabbia non si sarebbe incrudelito contro di loro».
      L’esecrabile fame dell’oro genovese andava ogni dì piú che l’altro moltiplicandosi nell’empie gole austriache; per essa i soldati di Maria Teresa avevano dimenticati perfino gli interessi del re di Sardegna.
      Il banco di san Giorgio turbava i sonni di Carlo Emanuele, il quale, oltre l’avere il marchesato di Finale, voleva pur partecipare in que’ monti di genovine. Il ministro di lui conte Bogino il sollecitava, ed egli per sè ci andava assai volentieri. Il re si lamentò cogli Inglesi, i quali, essendo ancor più teneri di lui che degli Austriaci, molto efficacemente lo favorivano.
      Villet, ambasciatore inglese, e Townshend, ammiraglio, trovarono che Carlo Emanuele aveva tutte le ragioni, e mandarono una nave con uno sciambecco(2) nel porto di Genova. Fu lasciata entrare, chè, come abbiamo letto nelle intimazioni del Botta, doveva il porto essere libero anco alle navi delle potenze alleate. Il capitano si ancorò alla bocca, non per semplice stazione, ma per commissione crudele. Quanti legni arrivavano, tanti faceva venire a bordo, poscia li metteva in preda, arnesi di guerra o non di guerra, vettovaglie o non vettovaglie portassero.
      I Genovesi alzarono grida dolorose, poichè ben scorgevano come alla rapacità soldatesca si sarebbe presto aggiunta l’inesorabile fame. Non era punto da dubitarsi, che, sparsasi la voce dell’infame condotta degli Inglesi, nave nissuna più non si sarebbe indirizzata a Genova.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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