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      «Virtù contro furorePrenderà l’arme e fia ’lcombatter corto;
      Chè l’antico valoreNell’italici cor non è ancor morto.»
     
      Sì, era giunto l’istante in cui un popolo oppresso, ma non domato, doveva fiaccare l’orgoglio a chi con tanta insolenza lo insultava e lo rubava.
      Il popolo genovese ha anima, è vero popolo italiano; non poteva esso più a lungo sopportare il terribile giogo.
     
      VIII.
     
      Il Botta dava opera al suo divisamento di togliere via le artiglierie di Genova per mandarle in Provenza, ove gran terrore regnava alla fama dell’esercito confederato. La Francia era lasciata a sè stessa. Gli Spagnuoli, rotto quasi l’accordo con essa, avevano preso la via per riguadagnare le case loro e rifarsi delle fatiche e dei danni sofferti in lunghi viaggi ed in accannita guerra. Francia sola non poteva bastare con soldati scemi per morti e diserzioni, resi deboli dalle tante fatiche, non solo a combattere lunga guerra, ma ad opporre una diga all’irrompere dei soldati vincitori di Londra e di Vienna.
      La causa dei Borboni pareva perduta. «Ma, era fatale, scrive il Buonamici, che alla virtù dei Genovesi, la Francia andasse obbligata della sua salvezza, l’Italia della sua libertà.»
      Qui ci è forza accennare come noi non accordiamo punto col Buonamici. Imperocchè è ben vero che l’eroismo genovese dalla rovina salvò colle sue le terre meridionali di Francia; ma non possiamo capire che razza di libertà salvasse all’Italia, quando la cecità del governo piemontese aveva fatta lega per riconfiggere nella Penisola il chiodo fatale dell’austriaca dominazione.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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