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      La reggia di Torino non poneva punto mente alle voci di Dante e di Macchiavelli, e i suoi ministri ignoravano i bei versi di Petrarca:
     
      «Ben provvide natura al nostro Stato
      Quando dell’Alpi schermoPose tra noi e la tedesca rabbia.»
     
      Gli Austriaci avevano cominciato col levare i più grossi cannoni dalle mura e dai posti della città; e già tredici pezzi coi loro carriaggi avevano trascinati verso la Lanterna, dove attendeva un naviglio inglese per riceverli a bordo, e portarli a destinazione. Fremeva il popolo nel vedersi involare quelle armi che erano state apprestate a sua difesa. Dalle maledizioni tacite, passava alle minacce aperte:
      « — Costoro, diceva, vengono a rubarci l’oro per consumare, e anco ci disarmano per poterci a loro agio scannare.»
      E l’indignazione, la rabbia, l’orrore andavano sempre più manifestandosi nel minuto popolo, il quale, coll’animo invasato dal furore e dalla vendetta, s’affollava e fremeva e mormorava là dove qualche ingombro od intoppo nasceva intorno alle artiglierie, che per le strette e montuose vie di Genova si conducevano dall’odioso nemico verso la porta a riva il mare.
      Il popolo stava per insorgere; e quando il popolo si desta, diremo col poeta soldato Goffredo Mameli, il martire di Roma:
     
      «Dio si mette alla sua testaLe sue folgori gli dà.»
     
      Le grandi rivoluzioni mai sempre furono fatte dai popoli. Il popolo tant’oltre non guarda; esso non numera il nemico; non calcola: ma sorge, combatte e muore. Il patrizio pensa ed è vizio, la plebe opera ed è virtù. Gli uomini dubitosi non salvano mai gli Stati, soltanto il popolo sa eseguire i grandi rivolgimenti politici, sa distruggere d’un colpo gli artifizi lungamente combinati dalla tirannide.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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