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      Mossi da malvagi, che gridavano essere quello un nuovo tranello, non davano ascolto a quanto dicesse l’onesto cittadino, e volevano accontentare il fiero talento che li trasportava. Già le cose si avvicinavano agli estremi danni. Un plebeo più degli altri crudele ed empio, colla miccia accesa in un mano, si accostava per sparare il cannone e far strage del sovrano palazzo. Ma il Lomellini, con pericolo della propria vita, non permise quello scandalo inaudito. Esso, postosi innanzi alla micidiale bocca da fuoco:
      « — Non fia, sclamò, che quell’augusta sede offendiate, se prima non avrete lacerate queste mie membra; in me, in me sfogate tutta la rabbia vostra: saziatevi del mio sangue; meno rei sarete per l’uccisione d’un cittadino solo che per l’eccidio di quel primo presidio della patria, ed io felice morrommi, se gli occhi miei una tanta scelleratezza non vedranno.»
      Alle parole, al generoso atto e magnanimo del Lomellini gli empi persecutori della patria si ristettero. I circostanti per tenerezza non poterono trattenere le lagrime, il popolo, il vero popolo che comprese l’inganno con cui era stato trascinato, già mormorava, e voleva dare una seria lezione ai dispregiatori d’ogni legge divina ed umana. Ma costoro, conosciuto come corressero pericolo, si fecero piccin piccini, e chi di qua, chi di là, tutti sgattaiolarono. Il cannone, lasciato libero, fu ricondotto al luogo donde era stato levato. E la giustizia, che raro non raggiunge i colpevoli, prese tostamente Noceto, Garbino e il figlio del boia, e tutti e tre fece appiccare al gibetto.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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