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      Essi dovettero alfine indietreggiare per modo che già vedevano l’odiata grifagna sventolare dicontro alle mura della diletta città.
      Infrattanto i fatti di Genova erano pervenuti nella loro verità alle orecchie dei re di Francia e di Spagna. Innanzi tratto erano stati mescolati con molte fole; dicevasi che in Genova signoreggiasse una plebe sfrenata e furibonda, che fossero scacciati tutti i nobili, che uno della più bassa plebaglia fosse innalzato alla suprema autorità del dogato, che lo Stato fosse ridotto al vivere, non pure popolare, ma plebeo, che nessun fondamento si potesse fare su di quella moltitudine cieca, mutabile, incomposta, sempre mossa da passione non mai da ragione, che le cose di quel paese fossero disperate, che esso si dovesse abbandonare a quel destino che da per sè stesso si era creato. Ma coll’andare del tempo i patrizi avevano trovato modo di far sapere che le condizioni della città non erano tanto cattive, quanto ne era andata la fama, che per verità un popolo poco regolato aveva gran parte nel maneggio delle pubbliche faccende, che però già gli antichi statuali risorgevano, e riprendevano piede ogni giorno più dell’altro, di modo che avevasi certa speranza che un assetto stabile si darebbe a tutto, e capace di poter presentare buon fondamento a chi volesse Genova soccorrere. Piegando poi i termini della Repubblica sempre più a maggior ordine, e ricuperatasi dal doge e dai collegi la consueta autorità, mandarono questi il principe Doria innanzi tratto in Provenza per informare i generali di Francia e di Spagna del vero stato delle cose, e come Genova, già aiutatasi da sè medesima, fosse in grado di aiutare chi a lei accorresse; indi allo stesso patrizio commisero si recasse a Parigi ed Londra per far persuasi quei sovrani delle ragioni e dei dolori della Repubblica, e per pregare il primo a mandare sussidi, il secondo a non più trattarla da nemica.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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