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      I Bisagnini, in particolar modo con altri popoli della riviera di Levante, avevano fatto una grossa accolta, la quale, sotto la condotta del patrizio Piermaria Canevari, postasi alla Scoffara, serviva quasi d’antemurale dalla parte del Bisagno. Così la guerra sino allora sparsa e vaga erasi ridotta sotto le mura.
      Schulembourg, dal suo quartier generale alla Torrazza, mandò un aiutante di campo alla Repubblica, significandole che ancor era tempo pei Genovesi di ricorrere alla clemenza dell’Imperatrice pronta a perdonare ogni eccesso; che clemenza e perdono da parte di lei egli loro offeriva, ma che se intendessero aspettare gli estremi e le artiglierie, che già erano in cammino, riponessero bene in mente che avendo l’Austria giustissima collera contro di Genova, sarebbero allora, malgrado ogni preghiera, saccheggiate le campagne, inceneriti i villaggi, mandata sossopra la capitale, e sepolti sotto le sue rovine i cittadini tutti. Solito linguaggio codesto de’ capitani austriaci non peranco mutato ai giorni in cui viviamo; mentre in altri è tutto incivilimento e moderazione; in essi è barbarismo ed iracondia.
      La Signorìa, ritemprata dall’eroica azione del popolo, come a uomini liberi s’addice, rispose allo stolto tedesco:
      «Genova non aver per volontà preso le armi, non per offendere, ma per difendersi, non per torre ad alcuno il suo, ma per conservare il proprio; avere per Maria Teresa ogni rispetto, ma più cara la propria libertà; essere pronti i suoi popoli a mettere e beni e vita, e quanto amano e quanto possedono per mantenere quella libertà salva ed intatta; confidare che la gran Madre di Dio e Dio stesso non le sarebbero scarsi del loro sussidio, ond’ella potesse tener fermo lo Stato, resistere ad una ingiusta aggressione, e condurre a buon fine un proposito di cui niuno era nè più generoso, nè più santo.


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Balilla
La cacciata degli austriaci da Genova (1746)
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1865 pagine 131

   





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