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      Di che molti morirono d'angoscia e più assai impazzirono."
      E il popolo bresciano, ad onta dei nuovi nemici accorrenti da tutte le parti ad opprimere una città di soli trentacinque mila abitanti, ad onta della persuasione essere vano ogni ulteriore contrasto, ad onta degli strazi testè narrati e d'una imminente rovina, non si dava per vinto, durava fermo alle poste e combatteva. Nè ciò basta, chè, scorta la bandiera di pace, inalberata sulla loggia del Comune, strepitò sì fattamente, che fu forza rizzare di nuovo il vessillo rosso, segnale di guerra disperata. E siccome i nemici, incendiando uomini e case, sempre più si venivano allargando, levossi una voce a consigliare a' cittadini, che, messi colle loro mani in fiamme anche i quartieri del centro, si gettassero tutti, uomini e donne, col coltello in pugno a cercare in quel vasto baratro di fuoco i nemici, e a morire sui loro cadaveri. Ma fu chi sviò il popolo da quel tremendo consiglio, che avrebbe avuto compimento, ricordando che molte spie stavano tuttora impunite nelle prigioni. I più feroci trassero a quell'invito di sangue; e cavati di carcere alcuni tristissimi mezzani della inquisizione austriaca, li fucilarono, sfidando così i sovrastanti nemici. I nomi di quei rifiuti della società sono: un Imiotti, cursore di Polizia, un Sambrini, un Giovanni Marinoni, detto Brutto, ed altro agente di Polizia col soprannome di Menacò. Non crediamo tacere, affinchè non si abbia a dare a questo fatto maggior valore di quello che porti un trabocco d'indignazione, come la Commissione dei giudizi avesse di que' scellerati già formato il processo, e già deciso di dannarli alla pena capitale, quali felloni del popolo sicari dello straniero.


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Il martirio di Brescia.
Narrazione documentata
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1863 pagine 125

   





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