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      E certo, scrive il Correnti, a frenare gli animi indomiti più valse la pietà, che la paura. E pur troppo spesso nelle case del popolo gli uomini dopo avere per carità delle donne e dei figli patito alcun tempo l'oltracotanza dei nemici, vinti ad un tratto da qualche più acerba trafittura, riafferravano le armi e morivano vendicati. Spesso anche i cittadini, che da più ore s'erano abbarrati nelle loro case, uscirono fuori di nuovo ai pericoli per soccorrere feriti, od accorrere agli incendi. Perchè è da notare che anche in questo estremo i Bresciani sdegnosamente rifiutarono che gli stranieri mettessero mano a soccorrere la città dopo averla rovinata; ed una volta che i soldati fecero vista di mescolarsi coi cittadini per combattere le fiamme che minacciavano d'incenerire tutto un quartiere, furono accolti con imprecazioni e con atti di orrore, sicchè dovettero restarsene.
      Dieci giorni durò Brescia in sull'armi, spesso vincente e non vinta affatto se non colle insidie. Caso unico negli annali guerreschi, ove, si pensi che la città, popolata, come abbiamo più sopra notato, di soli trentacinque mila persone d'ogni sesso e d'ogni età, aveva confitto nei fianchi il castello devastatore, e di più in sulle porte l'oste nemica, che crescendo man mano, in sull'ultimo toccava le venti migliaia di soldati stanziali. A questi appena appena si opposero due in tre migliaia di fucili in mano di cittadini e di valligiani nuovi tutti alla guerra, se ne togliamo le bande dei disertori; il resto sassi, tegole, coltelli.


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Il martirio di Brescia.
Narrazione documentata
di Felice Venosta
Editore Barbini Milano
1863 pagine 125

   





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