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      Ora aveva slargata la finestra che dava sul tetto di curatolo Arcangelo, e diceva che gli bisognava la casa di lui per fabbricarvi sopra la cucina e mutare la finestra in uscio. - Vedete, compare Arcangelo mio, senza cucina non ci posso stare! Bisogna che siate ragionevole -.
      Compare Arcangelo non lo era punto, e si ostinava a pretendere di voler morire nella casa dove era nato. Tanto, non ci veniva che una volta al sabato; ma quei sassi lo conoscevano, e se pensava al paese, nei pascoli del Carramone, non lo vedeva altrimenti che sotto forma di quell'usciolo rattoppato, e di quella finestra senza vetri. - Va bene, va bene, - rispondeva fra di sé il Reverendo. - Teste di villani! Bisogna farci entrare la ragione per forza -.
      E dalla finestra del Reverendo piovevano sul tetto di curatolo Arcangelo cocci di stoviglie, sassi, acqua sporca; e riducevano il cantuccio dov'era il letto peggio di un porcile. Se curatolo Arcangelo gridava, il Reverendo si metteva a gridare sul tetto, più forte di lui. - Che non poteva più tenerci un vaso di basilico sul davanzale? Non era padrone d'inaffiare i suoi fiori?
      Curatolo Arcangelo aveva la testa dura peggio dei suoi montoni, e ricorse alla Giustizia. Vennero il giudice, il cancelliere, e don Licciu Papa, a vedere se il Reverendo era padrone d'inaffiare i suoi fiori, che quel giorno non ci erano più alla finestra, e il Reverendo aveva il solo disturbo di levarli ogni volta che doveva venire la Giustizia, e rimetterli al loro posto appena voltava le spalle.


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Tutte le novelle
di Giovanni Verga
pagine 993

   





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